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Il cuore delle donne

Donne e uomini presentano caratteristiche uniche ed è tempo di considerare le preziose diversità anche nella prevenzione, diagnosi e terapia delle malattie cardiovascolari. Purtroppo l’incidenza delle cardiopatie femminili è in costante crescita ma non sempre questa statistica ottiene il risultato sperato: promuovere stili di vita sani e aumentare la consapevolezza sul tema.

L’infarto miocardico, infatti, è ancora la patologia con la più elevata mortalità nei paesi occidentali e nonostante i grossi passi avanti c’è ancora molta strada da fare. È qui che subentra la necessità di integrare le conoscenze della medicina di genere nel campo della prevenzione cardiovascolare.

La medicina di genere studia come le differenze biologiche, i fattori ambientali, emozionali e relazionali influenzano la salute degli uomini e delle donne. Il genere femminile viene colpito dalle malattie in modi e tempi diversi e soprattutto risponde alle terapie con modalità che spesso variano rispetto a quelle di un uomo. Per questo motivo, come professionisti della salute che mettono la persona al centro del percorso di cura, non possiamo ignorare queste indicazioni e dobbiamo approcciarci ad ogni caso in maniera personalizzata.

Quali sono le cause della maggiore esposizione?

Accanto ai fattori di rischio tradizionali – età, familiarità, tabagismo, sovrappeso/obesità, iperglicemia, dislipidemia, sedentarietà, ipertensione arteriosa (il range di normalità per le donne è stimabile intorno ai 110/120 mmHg per la pressione sistolica e 70/80 mmHg per la pressione diastolica) – è tempo di considerare e porre l’attenzione su nuove variabili.

Ecco dunque che in prevenzione cardiologica non possiamo ignorare:

  • la biografia di una donna
  • la regolarità del ciclo mestruale
  • lo stato di gravidanza o menopausa
  • l’assunzione di contraccettivi orali
  • le patologie autoimmuni
  • i disturbi alimentari
  • l’eventuale anamnesi oncologica con trattamenti di chemioterapia e radioterapia
  • condizioni come endometriosi e ovaio policistico
  • alterazioni del sonno
  • ipovitaminosi D
  • iperomocisteinemia
  • disturbi della funzionalità tiroidea
  • problematiche funzionali dell’apparato gastrointestinale
  • sindromi ansioso-depressive

A mio parere la mancanza di consapevolezza – nei medici e nelle donne – rappresenta la vera chiave per colmare il gap e proteggere davvero il cuore delle donne.

Quante volte non si approfondiscono i suddetti temi non per mancanza di competenze ma per mancanza di tempo? In Italia la durata media di una visita ambulatoriale è di circa 20 minuti e troppo spesso si omettono domande e particolari fondamentali. Il consiglio, dunque, è cercare un professionista della salute che vi dedichi tempo. Cominciare con un buon dialogo anamnestico significa intraprendere una relazione medico-paziente e un percorso di cura con il passo giusto. La raccolta di tutte queste informazioni dalla voce diretta delle donne aiuta ad inquadrare il caso e segnalare i campanelli di allarmi.

Come riconoscere una cardiopatia?

La sintomatologia solitamente appare meno intensa e più aspecifica nella donna, per questo motivo il disturbo può essere sottovalutato a lungo. Non solo non bisogna ignorare il classico dolore toracico con senso di oppressione ma anche la mancanza di fiato, il malessere generale con profonda stanchezza, nausea e/o svenimento.

Screening salvavita

Come già avviene per il tumore al seno e per il tumore al collo dell’utero anche per l’infarto miocardico è possibile utilizzare dei markers per la prevenzione. Non mi riferisco al colesterolo circolante, per il quale raccomando di considerare un range di normalità genere-specifico ed età dipendente (N.d.A. un valore più basso non è sempre migliore). Sto parlando del Calcium Score, ovvero la quantità di calcio presente nelle arterie coronarie, dove effettivamente avviene l’infarto miocardico. Questo punteggio, oltre ad essere estensivamente validato dalla comunità scientifica, è oggettivo e permette come nessun altro esame di stratificare il rischio cardiovascolare nelle donne con età superiore o uguale a 45 anni indipendentemente dai valori di colesterolo circolante. Utilizzando questo strumento da anni nella mia pratica clinica ho raggiunto due obiettivi:

  1. ho ridotto la necessità di farmaci in donne considerate a rischio solo sulla base degli esami di laboratorio
  2. ho intensificato gli interventi di prevenzione in donne non ritenute precedentemente a rischio

Come ridurre il rischio cardiovascolare

Non esiste una pillola magica – per fortuna – a cui delegare il benessere psicofisico ma è nostra responsabilità tutelare attivamente la salute facendo ogni giorno qualcosa per migliorarci. In quest’ottica il lavoro dei professionisti della salute diventa un supporto costante e personalizzato con l’obiettivo di diventare protagonisti della propria vita e della propria salute.

Quattro rapidi consigli per quattro pilastri

Nel mio percorso personalizzato per la riduzione del rischio cardiovascolare faccio riferimento ai quattro pilastri della salute:

  1. Nutrizione: gli unici grassi da demonizzare sono quelli idrogenati, tipici dei prodotti industriali. Tutti gli altri non ti faranno ingrassare, né peggioreranno gli esami di laboratorio
  2. Attività fisica: trova il giusto mix tra allenamento cardiovascolare e allenamento della forza
  3. Sonno: monitora la qualità con un dispositivo (per esempio l’anello Oura), vai a letto e svegliati sempre alla stessa ora
  4. Stress management: meditazione, respirazione, mindfulness, esercizio della coerenza cardiaca o tai chi. Trova la tecnica più adatta alle tue esigenze e praticala con costanza. Corpo e mente sono due entità talvolta ritenute separate ma da considerare un unicum indivisibile. Un motivo in più per cominciare ad ascoltare con attenzione il corpo, passando per la comprensione del legame tra eventi cognitivi, emotivi e fisiologici.

Un approccio umanistico alla cardiologia

Ricostruire la vita di una donna è fondamentale per un medico al fine di conoscere l’interazione tra un individuo e l’ambiente circostante. Conosciamo tutti l’importanza della genetica ma pochi tengono in considerazione le possibilità straordinarie dell’epigenetica: la capacità di influenzare l’espressione di un dato gene ereditato con un lavoro integrato sugli aspetti basilari del benessere psicofisico.

PS per approfondire leggi l’articolo:

“Calcium score: una mammografia per il cuore”

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La vitamina dei premi Nobel

vitamina B12

Ben sei premi Nobel sono stati assegnati per lo studio della più complessa tra le vitamine conosciute. Ovviamente sto parlando della Vitamina B12 e in questo articolo scoprirai perché è fondamentale conoscere la concentrazione ematica di questo straordinario composto in qualsiasi periodo della vita.

Personalmente consiglio ai miei pazienti di monitorare i livelli di B12 in maniera routinaria e di non interessarsi all’argomento solo se si segue una dieta vegana, durante la gravidanza, in presenza di patologie come celiachia, disbiosi e morbo di Crohn, dopo i 60 anni o in caso di assunzione di farmaci come gli inibitori di pompa protonica (gastroprotettori) e la metformina (ipoglicemizzante orale). Purtroppo però – tranne in rarissimi casi – questo approfondimento di laboratorio non viene mai richiesto.

A cosa serve la Vitamina B12?

Questo composto è coinvolto nella sintesi di DNA e partecipa al benessere del midollo osseo e del sistema nervoso. Infatti senza B12 la produzione di globuli rossi e di mielina – guaina di protezione dei nervi – subirebbe dei significativi rallentamenti. 

Quali sono i segni di una carenza di B12?

  • Stanchezza psicofisica e perdita della memoria
  • Anemia o incremento isolato di MCV (volume dei globuli rossi)
  • Iperomocisteinemia: eccessiva concentrazione di omocisteina nel sangue
  • Contrazioni muscolari involontarie
  • Disturbi della sensibilità e formicolii

Perché l’iperomocisteinemia aumenta il rischio cardiovascolare?

L’omocisteina è un sottoprodotto della metionina, aminoacido necessario per la produzione di proteine. La sua scomposizione non può essere completata quando c’è un deficit di vitamina B6, acido folico e vitamina B12. Gli alti livelli di omocisteinemia possono dipendere da una mutazione del gene MTHFR (polimorfismo predisponente abbastanza comune in Europa con una frequenza degli eterozigoti pari al 30-40%) oppure da condizioni acquisite a causa di uno stile di vita che produce stress ossidativo, infiammazione cronica, malassorbimento e carenza di vitamine. Correggere questo deficit è necessario per riportare i livelli di omocisteina nel range ottimale – inferiore a 12 µmol/L e non inferiore a 20 come moltissimi laboratori erroneamente segnalano. L’eccessiva concentrazione di omocisteina nel sangue è a tutti gli effetti un fattore di rischio cardiovascolare perché danneggia le pareti dei vasi sanguigni e altera la coagulabilità del sangue, aumentando la probabilità di andare incontro a fenomeni trombotici in presenza di altre condizioni predisponenti.

Dove si trova la vitamina B12?

Praticamente solo nei cibi di origine animale, in ordine crescente per concentrazione: pollo, uova, formaggio, yogurt, latte, manzo, pesce, vongole e cozze. Invece la presenza di B12 in alimenti di origine vegetale è scarsa o poco biodisponibile, rendendo quindi difficoltoso l’assorbimento. Stesso discorso per quanto riguarda alghe, tempeh, lievito di birra e kombucha: è davvero difficile stimare quanto il loro consumo costante possa intervenire in caso di carenza e personalmente non mi è mai capitato di vedere miglioramenti significativi – clinici e laboratoristici – utilizzando queste fonti.

A tutti i pazienti consiglio di dosare i livelli ematici di Vitamina B12 ed interpretarli correttamente con l’aiuto di un professionista esperto. Purtroppo però il range standard di laboratorio indica un intervallo di normalità compreso tra 130 e 900 ng/L. Questa forbice è davvero ampia e consiglio di non accontentarsi ma di cercare di raggiungere con l’alimentazione e la supplementazione di qualità i livelli normali (superiori a 450 ng/L) o meglio quelli ottimali tra 600 e 900 ng/L. Qualora la sintomatologia tipica della carenza di B12 persista nonostante la normalizzazione dei valori, consiglio il dosaggio urinario di un marcatore chiamato acido metilmalonico (MMA) per analizzare un meccanismo meno noto di carenza vitaminica.

Va bene un qualsiasi multivitaminico per integrare?

Sì, se l’obiettivo è quello di produrre urine particolarmente costose. Se invece ti interessa supplementare con una forma di B12 naturale, attiva e biodisponibile ti consiglio di chiedere al tuo farmacista di fiducia un prodotto a base di metilcobalamina con dosaggio giornaliero non inferiore a 500 µg. Io consiglio ai miei pazienti questo prodotto ed ho ottenuto un codice sconto da poter utilizzare per l’acquisto: TRI15

É possibile assumere troppa B12?

Il nostro corpo è capace di regolarsi autonomamente ed espellere con le urine e il sudore l’eventuale quota in eccesso di vitamine B ed altri composti idrosolubili. Ad ogni modo quando la supplementazione è guidata dagli esami di laboratorio e consigliata da un professionista della salute esperto è davvero improbabile incorrere nel sovradosaggio di B12. Infatti la revisione delle evidenze scientifiche ritiene sicura ed efficace una supplementazione fino a 2000 µg al giorno in assenza di insufficienza renale o epatica grave.

Basta poco per porre fine all’epidemia di questa carenza che coinvolge circa il 40% della popolazione tra i 25 e gli 85 anni e possiamo riassumere le azioni da compiere in due punti:

1) Inserire il dosaggio della vitamina B12 tra gli esami di routine

2) Considerare anomali i valori inferiori a 450 ng/L – come per esempio avviene in Giappone.

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Perché ho smesso di consigliare gli Omega-3

omega 3

Il re degli integratori prescritti per il cuore, il supplemento più venduto e quello con la letteratura scientifica apparentemente più solida. Ma è davvero così? In quest’articolo vi svelerò perché in molti casi ho smesso di consigliare l’assunzione di omega-3 e in altri suggerisco una composizione diversa da quella standard.

La storia

La storia degli acidi grassi polinsaturi (PUFA) è cominciata osservando la popolazione degli Eschimesi in Groenlandia, consumatori di grandissime quantità di grassi – di ogni tipo – e che solo raramente si ammalavano di malattie cardiovascolari. Negli anni ‘70, l’elevata concentrazione di omega-3 ritrovata nel sangue dei “mangiatori di carne cruda” (è questo il significato della parola Eschimesi) fu ritenuta responsabile della prevenzione che riduceva la probabilità di avere un infarto.

Questa osservazione ha interessato decine di migliaia di ricercatori che da allora studiano l’impatto degli acidi grassi essenziali sulla salute umana e ha alimentato l’interesse delle industrie produttrici di supplementi a base di EPA (acido eicosapentaenoico) e DHA (acido docosaesaenoico).

I pericoli dell’assunzione cronica

Moltissime persone ingeriscono pillole di omega-3 praticamente ogni giorno della loro vita. Così facendo aumentano le probabilità di innescare un pericoloso meccanisco chiamato perossidazione lipidica: una forma di degradazione che rende tossici gli acidi grassi solo per il fatto di entrare in contatto con luce, calore o aria. Parliamo di una situazione non sempre evitabile nel tragito dal mare al nostro stomaco, passando per lo stabilimento di produzione. Nel caso degli integratori, per essere sicuri degli standard di produzione e dell’assenza di tossine, metalli pesanti e altri contaminanti, il prodotto che acquistate dovrebbe sempre riportare la certificazione dell’International Fish Oil Standards Program (IFOS), un’organizzazione indipendente che determina qualità e sicurezza dell’olio prima della commercializzazione.

Cosa c’è di nuovo?

A fine 2020 sono stati pubblicati i risultati dell’atteso studio STRENGTH che ha portato alla luce diversi errori nel modo in cui venivano portati avanti i precedenti studi sull’argomento, come spiegato dal Dott. Steve Nissen – maggior esperto mondiale di prevenzione cardiologica – in questo video. Questa recente pubblicazione ha dimostrato l’assenza di benefici sull’apparato cardiovascolare in seguito all’assunzione cronica di supplementi a base di olio di pesce.

“Mangiate pesce, non olio di pesce”

La citazione appartiene al Dott. John Mandrola, uno dei maggiori esperti di prevenzione cardiovascolare e autore del libro “Il cuore fuori controllo”. Le migliori fonti alimentari di acidi grassi sono proprio: sardine, alici, salmone, sgombri, merluzzo etc. Questi alimenti dovrebbero essere consumati almeno due volte a settimana anche per il loro apporto di vitamina D, minerali, zinco e fosforo. Altre ottime fonti alimentari di Omega-3 sono: semi di lino, semi di chia, noci, cavoletti di bruxelles, alga spirulina, olio estratto dai semi di perilla. Gli acidi grassi sono così importanti per la salute perché rientrano tra i componenti fondamentali delle membrane cellulari e hanno effetti anti-infiammatori che contribuiscono alla prevenzione delle malattie croniche.

E gli omega-6?

Anch’essi appartengono alla famiglia degli acidi grassi polinsaturi, ma un loro consumo eccessivo può avere effetti pro-ossidanti e pro-infiammatori danneggiando l’apparato cardiovascolare. Per il corretto funzionamento del nostro organismo il rapporto tra Omega 6 e Omega 3 deve essere inferiore o uguale a 4 come riporta l’INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione).

Al fine di ridurre l’apporto di Omega-6 è importante non superare i 20-40 g di frutta secca ogni giorno ma soprattutto abolire il consumo di oli e grassi vegetali idrogenati e non spremuti a freddo come: margarina, olio di colza, olio di semi di girasole, olio di mais, olio di soia. Imparate a leggere le etichette al supermercato perché molto spesso questi grassi si nascondono in alimenti apparentemente insospettabili come biscotti e merendine.

Conclusioni

Il mercato globale degli omega-3 è un’industria valutata circa 3 miliardi di euro e capace di influenzare pericolosamente l’opinione pubblica e i professionisti della salute con false promesse. Dopo aver analizzato la più recente letteratura scientifica sull’argomento – basata su trial clinici randomizzati e non su studi osservazionali – ritengo che la supplementazione con omega-3 non apporti nessun beneficio in prevenzione cardiovascolare primaria (persona sana o con fattori di rischio) e secondaria (persona con storia di infarto miocardico). Ciò non esclude che questi principi attivi possano rappresentare un valido supporto per altre condizioni patologiche e in questo caso il consiglio è quello di assumere l’integratore in modo intermittente (per esempio 3 mesi sì e 3 mesi no) e prediligere forme con un maggior contenuto di DHA – come questo (codice sconto: dottnictrigl)

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Che cos’è il Coenzima Q10 e perché potresti averne bisogno

coenzima Q10

In un mondo ideale non avremmo bisogno di integratori perché una dieta equilibrata basterebbe ad apportare minerali, vitamine ed acidi grassi nella quantità desiderata. Purtroppo però le proprietà del suolo sono cambiate e apportano sempre meno nutrienti per la crescita delle piante. La contaminazione ambientale ormai arriva sulla nostra tavola e tutto quello che dobbiamo fare è mantenere in salute il sistema immunitario e gli organi emuntori per eliminare prontamente le sostanze tossiche prima che si accumulino. In questo contesto ritengo la supplementazione di qualità un modo per limitare i danni in un mondo che cerca continuamente di aggredirci o di farci aggredire dall’interno.

“Il Q10 ridona al cuore la sua vitalità naturale”

Queste sono le parole del Prof. Linus Pauling, ricercatore nell’ambito delle vitamine, insignito di due Premi Nobel.

Negli ultimi venti anni la ricerca in questo campo ha subito un’impennata perché questo tipo di supplementazione non rappresenta un “rimedio sintomatico” bensì consente di intervenire alla base delle disfunzioni che si instaurano in molte patologie. Il Q10 appartiene alla famiglia degli ubichinoni e deve il suo nome proprio alla sua ubiquitaria presenza nei tessuti e in tutte le membrane cellulari. Inoltre è fondamentale per la produzione mitocondriale di ATP – la valuta energetica più importante a nostra disposizione. Il suo ruolo attivo nella produzione di energia a livello cellulare fa sì che una sua deplezione entri a far parte della patogenesi multifattoriale della maggior parte delle malattie croniche.

Una della maggiori cause di invecchiamento precoce

Secondo la teoria mitocondriale il danno ossidativo delle strutture cellulari, causato dalle specie reattive dell’ossigeno (ROS), gioca un ruolo importante nel declino funzionale che accompagna l’aging. I ROS vengono sintetizzati nei mitocondri come prodotto di scarto in seguito alla sintesi di ATP. Qualora questi non vengano neutralizzati dagli agenti antiossidanti, nel tempo possono danneggiare la funzione mitocondriale e ridurre il metabolismo energetico di organi come cuore, fegato e muscolo scheletrico. La produzione endogena di questo coenzima declina a partire dal termine dell’adolescenza ed è inoltre influenzata negativamente da alcune patologie o dall’assunzione di questi farmaci:

  • statine
  • fibrati
  • alcuni beta-bloccanti come propranololo e metoprololo
  • antidepressivi triciclici.

In particolare le statine agiscono inibendo l’enzima HMG-CoA reduttasi e riducono la produzione endogena di colesterolo. Numerose sono le evidenze scientifiche che dimostrano una riduzione fino al 40% del Q10 dopo l’assunzione di questi farmaci. D’altronde è questo il motivo per cui gli effetti collaterali più frequenti sono: astenia, affaticamento muscolare, mialgie e persino in alcuni casi disturbi della memoria a breve termine.

Una molecola sempre più diffusa

Vista questa necessità, sempre più nutraceutici sul mercato contengono il coenzima ma sia la formulazione che il dosaggio non assicurano un’adeguata biodisponibilità. Sul mercato degli integratori, infatti, la maggioranza dei prodotti a base di Q10 riporta l’assorbimento di una quota molto bassa di principio attivo (circa il 5%). Nonostante gli studi riportino un’efficacia della supplementazione a partire da 100 mg, la formulazione più frequente sul mercato riporta un dosaggio medio di 30 mg. Questa scelta commerciale, giustificata dagli elevati costi di produzione e dalla preferenza per la forma ossidata (ubichinone) ha inciso sfavorevolmente sull’opinione che i clinici hanno del Q10. Tuttavia moltissime ricerche hanno esaminato la sua efficacia nella salute del cuore. Attenzione però nella scelta del principio attivo, rivolgiti ad un medico esperto di Medicina Integrata per la prescrizione e prediligi la forma ridotta (ubichinolo) del Q10, come quella presente in questo prodotto.

Quando l’alimentazione non basta?

Si stima che l’alimentazione possa contribuire mediamente al 25% del fabbisogno giornaliero apportando circa 3-6 mg/die. Tra le fonti nutrizionali di coenzima troviamo carne, pollame e pesce. In particolar modo gli animali nutriti ad erba (grass fed) apportano una quota maggiore di Q10. Un’altra strategia nutrizionale per incrementare l’assunzione di questa molecola fondamentale consiste nel prediligere il consumo di organi come cuore e fegato. Coloro i quali hanno bisogno di supportare la propria terapia ed ottenere un’azione farmacologica devono preferire un prodotto a base di ubichinolo, forma ridotta che agisce da antiossidante in grado di neutralizzare i radicali liberi ed il loro ruolo nella patogenesi di molte malattie croniche. Oltre alle persone che assumono statine, in realtà anche altre categorie riceverebbero un grande beneficio dall’assunzione di questa molecola, per esempio i pazienti affetti da scompenso cardiaco o da ipertensione arteriosa. Infatti un numero relativamente ampio di studi clinici supporta l’effetto antipertensivo di alti dosaggi di questo coenzima. Il Q10, infine, può essere utile nel trattamento delle aritmie ed in quello di disturbi che non hanno a che fare col cuore come:

  • malattie neurodegenerative
  • emicrania
  • fibromialgia
  • infertilità
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Basta un poco di aglio

aglio

L’aglio è una pianta erbacea perenne e rappresenta uno dei rimedi più antichi e diffusi della medicina popolare. Il suo utilizzo viene raccomandato frequentemente anche nel Papiro di Ebers, il più antico testo medico che ci sia pervenuto, risalente al 1500 a.c. D’altronde gli Egizi sono stati i più grandi consumatori di aglio nella storia ed attribuivano delle proprietà divine a questa pianta. Nell’Antica Grecia invece era un dopante naturale: gli atleti consumavano grandi quantità per migliorare la performance sportiva.

L’allicina: un principio attivo con proprietà farmacologiche

È proprio questo il componente responsabile dei benefici dell’aglio. Tra i suoi effetti troviamo:

– Riduzione delle calcificazioni a livello coronarico, particolarmente utile in pazienti con Calcium Score elevato

– Effetto regolatore sulla pressione arteriosa – soprattutto la diastolica o “minima” – e sul tono vascolare grazie all’aumentata sintesi di ossido nitrico che induce una graduale vasodilatazione

– Proprietà antimicrobiche: la fitoterapia moderna raccomanda il consumo di piante del genere Allium per le infezioni delle vie respiratorie ed in caso di parassitosi intestinali

– Inibizione del processo di ossidazione del colesterolo circolante, ritenuto responsabile della progressione dell’aterosclerosi

– Azione simile all’aspirina grazie all’influenza sul’aggregazione piastrinica

I numerosi benefici sull’apparato cardiovascolare dipendono dalle proprietà antinfiammatorie e antiossidanti, che proteggono il cuore dalle specie reattive dell’ossigeno. Il suo effetto positivo sull’ipertensione e sulle placche aterosclerotiche riduce globalmente le probabilità di avere un infarto agendo sui fattori più frequentemente responsabili di un aumentato rischio cardiovascolare. Stiamo parlando, quindi, di una pianta dagli effetti fenomenali!

Come assumere l’aglio?

Chiariamo subito che mangiare ogni giorno gli spaghetti aglio, olio e peperoncino non è una strategia efficace per sfruttare i benefici di questa pianta. Se non sei un grande consumatore di aglio potresti utilizzare un integratore contenente l’estratto di aglio invecchiato. La Kyolic è un’azienda giapponese conosciuta in tutto il mondo per la commercializzazione di questo prodotto. Le sue capsule gastroresistenti fanno in modo che la polvere (100% di bulbi proveniente da agricoltura biologica) venga liberata solo nel tratto intestinale in modo da evitare nausea ed alito cattivo.

Oltre agli integratori presenti sul mercato, esiste una strategia casalinga per non farsi mancare la propria dose giornaliera di allicina. I benefici di questa pianta vengono estremamente ridotti da tutti i metodi di cottura, motivo per cui è meglio promuovere il consumo a crudo. Il metodo descritto di seguito è stato tramandato per centinaia di anni per la sua particolare efficacia nel ridurre il discomfort gastro-intestinale e l’alito cattivo.

Istruzioni:

– Acquista aglio biologico di qualità. Inizia con mezzo spicchio per poi incrementare fino al dosaggio di due spicchi al giorno.

– Ottieni dei pezzi molto piccoli (della grandezza di una compressa) e lasciali riposare alcuni minuti sul tagliere. In questo modo faciliterai la reazione biochimica di idrolisi enzimatica mediata dall’enzima mirosinasi.

– In seguito aggiungi l’aglio a pezzi in un bicchiere d’acqua riempito a metà. Aspetta ancora 5 minuti e poi comincia a bere il tuo preparato. Ti raccomando di non masticare l’aglio ma di mandarlo giù come se fosse una pillola.

– Provare per credere. Nessun effetto collaterale.

Ci sono pochi dubbi: l’aglio fa bene al cuore!

PS per approfondire:

Leggi l’articolo: “Una mammografia per il cuore

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Il sale: amico o nemico?

sale

Come è successo per il colesterolo e per il sole, anche il sale ha guadagnato una brutta reputazione negli ultimi anni. Tale giudizio è figlio di studi epidemiologici che dimostrerebbero gli effetti negativi di questo nutriente fondamentale. Il risultato è che tra le raccomandazioni nutrizionali più acclamate troviamo quella relativa alla riduzione del consumo di sale al fine di ridurre il rischio di ipertensione e di malattie cardiovascolari. Nonostante questo, i Giapponesi – i più grossi consumatori di sale al mondo – continuano ad essere tra i popoli più longevi.

“La cura per qualsiasi cosa è acqua salata – sudore, lacrime o mare” – Isak Dinesen

Per i Cristiani era simbolo di verità e saggezza (“Siate il sale della terra…”). Persone di ogni credo e religione hanno esaltato i benefici di questo composto nel corso degli ultimi secoli. Nei paesi che circondano il Mar Mediterraneo il sale è stato a lungo considerato alla pari dell’oro. I legionari Romani venivano pagati anche con razioni di sale o, come veniva chiamato allora, salarium argentum. Proprio da qui deriva il termine salario, con cui definiamo la retribuzione periodica. Inoltre la parola latina sal si pensa abbia dato origine al termine salute.

Ma quindi, il sale fa male o no?

La riduzione del consumo di sale può ridurre i valori di pressione arteriosa solo nel ristretto gruppo degli ipertesi sodio-sensibili ma, in tutti gli altri, faciliterà l’attivazione del sistema renina-angiotensina aumentando il rischio cardiovascolare. L’industrializzazione del cibo ha risolto i problemi di produzione e distribuzione a scapito della genuinità e della qualità degli alimenti. Questo è avvenuto anche con la raffinazione del sale da cucina (cloruro di sodio al 98%), che lo ha reso pulito ma lo ha privato di preziosi oligoelementi tra cui magnesio, potassio, zolfo, rame, zinco e fosforo. Come per ogni diatriba alimentare potrei elencare centinaia di studi contro il consumo di sale e per ognuno di questi una pubblicazione a favore, purtroppo però quasi mai si fa differenza tra sale raffinato e sale marino integrale in ambito di ricerca.

Il sale ha degli effetti sulla salute cardiovascolare

Io ritengo che questi effetti siano positivi, soprattutto quando i prodotti vengono scelti con cura. Il vero problema, infatti, deriva dal cosiddetto “sale nascosto” che rappresenta circa l’80% del nostro consumo. In particolar modo bisogna fare attenzione a prodotti da forno, alimenti industriali e cibi in scatola: per esempio zuppe, cereali, salse pronte e insaccati. Limitare il consumo di questi alimenti permette quasi matematicamente di rispettare le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che suggeriscono una soglia di 5 g di sale al giorno.

Ci sono argomenti in cui il buon senso e la saggezza popolare valgono più di tutte le pubblicazioni scientifiche. Il sale è uno di questi e sono convinto che quando in cucina si utilizzano ingredienti di qualità – evitando cibi pronti – non c’è bisogno di preoccuparsi del sale. Prova a prendere un qualsiasi ricettario, non per forza uno gourmet, e troverai la raccomandazione più importante: “assaggiare e salare a gradimento”. Perciò acquista del sale marino integrale, sale celtico, o sale rosa ed aggiungine a piacimento. Il sale è un ingrediente fondamentale in cucina, un esaltatore di sapidità in grado di conferire gusto a molte pietanze che altrimenti sarebbero poco gradevoli. Come avrai capito, la differenza tra i diversi tipi di sale dipende dal modo d’estrazione, dall’origine marina o dal tipo di miniera, dalla raffinazione e dalla presenza di eventuali sali minerali e microelementi in grado di caratterizzarne il sapore. Non consiglio quasi mai il sale iodato perché lo iodio in esso contenuto non è in forma biodisponibile e ci sono strategie molti più efficaci per prevenire il gozzo tiroideo.

Alcuni consigli pratici

I reni sono perfettamente in grado di regolare la ritenzione e l’escrezione di sodio al fine di ottimizzare le funzioni biologiche. In caso di ridotta funzionalità renale potresti essere più sensibile agli effetti del sale con conseguenti effetti sulla pressione arteriosa. Tuttavia se non soffri di ipertensione, scompenso cardiaco o insufficienza renale non c’è bisogno di seguire una dieta a basso contenuto di sale, anzi potrebbe essere addirittura pericoloso per la tua salute. La raccomandazione principale è quella di seguire un piano nutrizionale equilibrato evitando il consumo di carboidrati raffinati e prodotti industriali. Questa semplice accortezza, infatti, ridurrà il consumo di cloruro di sodio nella tua dieta.

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Ora lo smartwatch può riconoscere un infarto

lo smartwatch può riconoscere un infarto

Le recenti innovazioni tecnologiche ci permettono di diagnosticare in autonomia aritmie potenzialmente letali e di tenere sotto controllo le reazioni dell’attività cardiaca dopo eventi stressanti o sforzi intensi. Il prossimo obiettivo dichiarato è la diagnosi dell’infarto miocardico, killer numero 1 nel mondo occidentale.

Un nuovo capitolo

Dopo aver già rivoluzionato la diagnosi e la gestione della fibrillazione atriale eliminando viaggi inutili in Pronto Soccorso e riducendo la richiesta di visite ambulatoriali, lo smartwatch risulta sempre più utile per chi soffre di malattie cardiovascolari o vuole prevenirle. Mettendo in atto un semplice escamotage gli “orologi intelligenti” sono capaci di diagnosticare precocemente l’infarto del miocardio con una sensibilità del 94% ottenendo un elettrocardiogramma (ECG) a 9 derivazioni. L’utilizzo di questa funzione è riservata ai medici e al personale sanitario qualificato in condizioni di emergenza e in assenza di altre apparecchiature disponibili. A far luce sulla nuova funzione è una ricerca condotta da un team italiano e pubblicata sul prestigioso giornale JAMA Cardiology.

Gli smartwatch come l’Apple Watch serie 4, serie 5 e serie 6 sono programmati per registrare una sola derivazione elettrocardiografica, capace quindi di esplorare solo una parte dell’attività elettrica cardiaca. Tuttavia spostando l’orologio in diverse posizioni del corpo è possibile ottenere una valutazione analoga a quella effettuata da un ECG standard. Sebbene in passato siano stati compiuti numerosi tentativi per migliorare l’accuratezza del tracciato spostando l’orologio, solo adesso con i risultati di questa ricerca possiamo affermare un’importante novità: i medici hanno un’arma in più per diagnosticare l’infarto lontando dalle strutture sanitarie.

Sviluppi futuri

Non esiste ancora un programma che consenta la diagnosi automatica di infarto con l’Apple Watch, per questo motivo oggi è indispensabile che i dati vengano ottenuti e interpretati da un medico. Tuttavia è molto probabile che in futuro saranno disponibili software per la diagnosi istantanea in caso di sintomi sospetti. Questa innovazione accorcerà sensibilmente i tempi di intervento e migliorerà la prognosi dei pazienti. In questi casi ottenere tempestivamente un ECG è fondamentale e per questo sarà sempre di maggiore aiuto la grande diffusione degli smartwatch. Se la presenza di defibrillatori automatici sul territorio ha già salvato migliaia di vite, pensate quanto potrà essere utile avere funzioni sanitarie avanzate praticamente a portata di ogni polso.

Solo l’Apple Watch è dotato di questa funzione?

Lo smartwatch utilizzato per la ricerca pubblicata non è il solo in grado di registrare un ECG accurato e quindi ottenere più derivazioni spostando l’orologio in posizioni precise sul torace. Si aggiungono alla lista dei device utilizzabili anche il Fitbit Sense e il Samsung Galaxy Watch 3. Sicuramente gli anni a venire ci riserveranno un’incredibile distribuzione di queste nuove tecnologie applicate alla salute, un tempo solo capaci di migliorare la vita e oggi in grado di salvarla.

Il tempo è muscolo

Questo slogan rende bene l’importanza di un intervento precoce, capace di risparmiare molte fibrocellule miocardiche. Infatti l’’infarto miocardico acuto è una patologia provocata dall’occlusione completa o parziale di un’arteria coronaria. Questa distinzione è importante per stabilire l’urgenza e definire i tempi di intervento, che in caso di ostruzione totale devono essere precoci. In questo senso ci aspettiamo che in futuro diversi dispositivi indossabili o wearables avranno il potere di individuare con rapidità una patologia acuta e potenzialmente letale.

In caso di dolore toracico, soprattutto se associato a sudorazione e difficoltà di respirazione, le linee guida della Società Europea di Cardiologia sull’infarto miocardico consigliano l’esecuzione di un ECG entro 10 minuti dal primo contatto col medico. Per questo motivo ribadisco che l’utilizzo degli smartwatch potrebbe essere d’aiuto per accorciare i tempi d’intervento e arrivare ad una diagnosi precoce prima di arrivare in ospedale.

PS per approfondire leggi l’articolo:

Vuoi vivere a lungo? Riduci la frequenza cardiaca

Perché è importante il recupero della frequenza cardiaca

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Sicuro di saper respirare?

respirazione

Ho inserito nel titolo una domanda apparentemente retorica, considerando che tutti respiriamo fin dalla nascita. In realtà poche persone riescono a respirare in maniera efficace per l’organismo.

Quali sono gli errori più frequenti?

– Prendiamo respiri sempre più corti e frequenti

– Non utilizziamo il diaframma

– Non osserviamo mai come respiriamo

Il diaframma è un muscolo a forma di cupola che separa il torace dall’addome. Per scoprire dove si trova posa le mani appena sotto la cassa toracica e segui il contorno delle costole, dal ventre verso i fianchi. Fai caso al suo movimento durante un ciclo respiratorio. È il principale muscolo deputato alla respirazione e, se usato correttamente, consente di fare respiri profondi ed efficienti. Stress, postura scorretta e altre cattive abitudini invece ci portano ad eseguire respiri corti utilizzando solo la parte superiore del torace.

Merita una menzione anche l’ostinata consuetudine di respirare con la bocca, che crea stress nell’organismo perché ci porta ad eliminare più anidride carbonica (CO2) del normale. Contrariamente a quello che si pensa, questo gas risulta di vitale importanza perché aiuta ad assorbire l’ossigeno nelle cellule.

Perché respirazione e stress cronico sono strettamente correlati

Il nostro respiro si fa corto e accelerato quando la mente è frenetica, sospiriamo e andiamo in apnea senza nemmeno renderci conto. Invece quando impariamo a fermarci 5 minuti per compiere 6 atti respiratori al minuto – al posto dei canonici 12/16 atti – tutto ci sembra più lento e calmo. Istantaneamente cambia il nostro punto di vista. Non è così?! Prova ad esercitarti con questo video: dovrai inspirare gonfiando lentamente la pancia quando la pallina sale ed espirare quando scende. Prova a farlo per due-tre volte al giorno.

Un altro dei numerosi esercizi prevede una inspirazione della durata di 4-5 secondi, seguita da una pausa respiratoria di 2 secondi, prima di terminare con una espirazione di 6-8 secondi.

Mi raccomando, ricorda sempre il detto indiano: “Il naso serve per respirare, la bocca per mangiare”

D’altronde sappiamo che mangiare è una delle attività più importanti perché ripetuta almeno tre volte al giorno per tutta la vita. Cosa dire allora della respirazione? Prendiamo circa ventimila respiri ogni giorno e quando respiriamo male costringiamo l’organismo a mettere in atto delle regolazioni per garantire un livello costante di ossigeno nel sangue.

Questo costante lavoro di calibrazione altera profondamente la fisiologia e a lungo termine predispone allo sviluppo di malattie croniche e sindromi ansioso-depressive.

I benefici di una respirazione efficace

Avrai capito che imparare a respirare correttamente è fondamentale per il nostro benessere. Non a caso troviamo questi esercizi in molte pratiche millenarie (yoga, tai chi) ma anche in quelle moderne come le neuroscienze e la mindfulness. Questo perché gli effetti sono molteplici e interessano diversi sistemi e apparati:

Miglioramento della qualità del sonno

Ottimizzazione dei processi di digestione

Controllo della pressione arteriosa

Riduzione dell’ansia

Gli scienziati non sono ancora certi se i miglioramenti siano dovuti alla migliore ventilazione e ossigenazione o al rilassamento che accompagna il controllo del respiro. Probabilmente si tratta di un mix…motivo per cui non ci resta che praticare.

Per respirare bene bisogna imparare dai bambini

Una lenta respirazione diaframmatica è la chiave di attivazione del nervo vago, l’ingrediente mancante per bilanciare l’equilibrio del sistema nervoso autonomo. Per impararla basta osservare un bambino. Osserva i movimenti del suo diaframma quando respira e poi guarda se la tua pancia si gonfia alla stessa maniera quando espelli l’aria. Da piccoli impariamo a respirare automaticamente nella maniera corretta, poi in parte per colpa nostra, in parte per colpa degli altri (è noto che apprendiamo anche per imitazione) il nostro modo di respirare si fa meno fluido e più rapido.

Ogni persona che intraprende un percorso della salute dovrebbe essere consapevole di come respira.

Qual è il numero medio di respiri al minuto?

L’aria inalata arriva a gonfiare la pancia o si interrompe a metà dello sterno?

Ti ritrovi mai in apnea senza motivo?

Sospiri spesso?

Se lasci scorrere il respiro verso il basso incontri delle resistenze?

Rispondi a queste domande e tieni un “diario del respiro” prima di cimentarti negli esercizi.

“Respira! Sei vivo” – Thích Nhất Hạnh

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Conosci il terzo colesterolo?

bob harper

Conoscete Bob Harper? Prima di sentire la sua storia clinica, non lo conoscevo nemmeno io. Eppure in USA è una vera e propria celebrità: personal trainer dei VIP, autore ed ospite di numerosi programmi televisivi tra cui il reality “The Biggest Loser”, i cui concorrenti sono persone sovrappeso che vogliono rendere più sane le proprie vite.

Nel 2017, all’età di 52 anni, Harper ha rischiato la vita a causa di un infarto miocardico che l’ha tenuto ospedalizzato a lungo in lotta tra la vita e la morte. Harper ha raccontato che dopo i primi giorni di confusione mentale in terapia intensiva ha cominciato a domandarsi perché proprio lui, con i suoi valori perfetti di colesterolo. Godeva di ottima salute, si allenava, mangiava bene e soprattutto ogni anno la sua assicurazione sanitaria gli dava accesso ai migliori test di screening. Una volta scampato il pericolo ed uscito dall’ospedale Harper ha cominciato ad indagare in maniera approfondita.

Tutti gli esami del sangue risultavano normali. Tranne uno.

La lipoproteina a, anche chiamata Lp(a), è una lipoproteina a bassa densità, geneticamente determinata quindi importante da rilevare in quei soggetti con una familiarità per cardiopatia ischemica. Addirittura, vista la componente autosomico dominante, già dall’età di 5 anni si raggiungono livelli che resteranno stabili nel tempo. Rappresenta un forte fattore di rischio quando supera i 50 mg/dL ma considero già preoccupanti valori intorno ai 30 mg/dL. Purtroppo questo test non è incluso nei pannelli standard, nonostante l’importanza fondamentale.

Recenti studi indicano che circa una persona su cinque presenta dei valori anormali

Purtroppo però ad oggi non ci sono farmaci in grado di ridurre la concentrazione plasmatica di questa lipoproteina e solo la somministrazione di niacina (vitamina B3) sembra efficace. Tuttavia gli alti dosaggi di vitamina richiesti causano spesso effetti collaterali come flushing, eritemi e sintomatologia gastrointestinale. Peraltro questa supplementazione non è adatta a tutti perché controindicata in pazienti affetti da ulcera peptica, diabete mellito ed insufficienza renale.

Personalmente testo la presenza di Lp(a) in tutti i pazienti, non solo quelli con familiarità. Quando trovo dei valori elevati mi comporto così:

  1. Intensifico la correzione degli altri fattori per ridurre il rischio cardiovascolare globale
  2. Ricerco l’aterosclerosi subclinica con il calcolo del calcium score coronarico
  3. In alcuni casi prescrivo la cardioaspirina
  4. In tutti i casi eseguo un ecocolordoppler cardiaco per cercare calcificazioni sulla valvola aortica
  5. Chiedo di eseguire il test anche nei parenti di primo grado, vista la componente ereditaria

Fate attenzione a non confondere la lipoproteina a con l’apolipoproteina A1, che invece rappresenta la componente proteica delle lipoproteine ad alta densità (HDL). Mi capita molto spesso di trovare erroneamente questo valore nel referto delle analisi di laboratorio al posto di Lp(a). Altra considerazione importante: il rischio che deriva dagli elevati livelli di lipoproteina A è indipendente dai livelli di LDL perché questo composto organico mostra una spiccata capacità di infiltrare le pareti arteriose ed aumentare la progressione dell’aterosclerosi.

Era proprio questo il fattore di rischio “nascosto” di Bob Harper, che da allora ha creato una fondazione per la sensibilizzazione sull’argomento.

PS per approfondire leggi l’articolo:

“Cos’hai bisogno di sapere sul colesterolo”

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Sonno e ipertensione arteriosa

sonno e ipertensione arteriosa

L’ipertensione arteriosa è un problema che interessa un italiano su tre. Si tratta di un killer silenzioso per la sua capacità di danneggiare il cuore e i vasi in maniera costante e progressiva, talvolta senza dare sintomi. Le recenti scoperte sulla relazione tra sonno e pressione alta sono la conseguenza della maggiore attenzione che negli ultimi anni è stata dedicata alla scienza del riposo notturno. In particolare, uno studio pubblicato sulla rivista Hypertension ha dimostrato come la qualità del sonno incida sui valori pressori.

Sapevi che l’insonnia aumenta il rischio di ipertensione arteriosa del 300%?

Il momento di maggiore incidenza dell’infarto del miocardio e dell’ictus cerebrale è rappresentato proprio dalle prime ore della mattina (corrispondenti alle ultime ore del sonno). Questa e altre indicazioni sottolineano ancora una volta l’importanza di considerare il paziente iperteso nella sua globalità, tenendo conto di tutti gli aspetti dello stile di vita che possono incrementare il rischio cardiovascolare.

In assenza di una causa si parla di ipertensione essenziale, per intendere la natura apparentemente idiopatica di questa condizione. In alcuni casi, invece, l’incremento dei valori è giustificato da una patologia sottostante. La causa più frequente di ipertensione arteriosa secondaria è la sindrome delle apnee notturne (OSAS).

Per darvi un’idea della portata del fenomeno: metà degli ipertesi soffre di OSAS e metà di quelli con OSAS soffre di ipertensione.

Le più recenti linee guida sull’ipertensione arteriosa hanno incluso nelle raccomandazioni l’esecuzione di un Holter pressorio per verificare il comportamente della pressione arteriosa (PA) di giorno e di notte. Questo perché è stato dimostrato che un incremento notturno è tra i migliori predittori di eventi cardiovascolari indipendentemente da altri fattori di rischio. Normalmente questo esame rivela una riduzione dei valori pari almeno al 10%. Se in un paziente non si rileva questa discesa è probabile che sia affetto da apnee notturne e, indipendentemente da questo, è da considerare a rischio. Queste novità, presentate da uno studio nell’Ottobre del 2019, hanno portato ad una rivoluzione della farmacologia cardiovascolare. Per la prima volta, infatti, abbiamo cominciato a suggerire ai pazienti ipertesi di migliorare l’igiene del sonno e assumere gli eventuali farmaci anti-ipertensivi o rimedi non farmacologici di sera e non di mattina. Questa strategia migliora il controllo della PA nelle 24h e minimizza gli effetti collaterali. Un atto semplice ma capace di ridurre in questa categoria di pazienti la mortalità, il rischio di infarto e ictus.

Per fare diagnosi di OSAS è necessario sottoporsi ad un esame cardiorespiratorio o polisonnografia. Questo studio è l’unico capace di diagnosticare i disturbi del sonno. Tuttavia prima di rivolgersi ad un laboratorio specializzato è possibile cercare di migliorare il riposo notturno seguendo alcuni semplici accorgimenti.

Il 40% della società vive con un cronico debito di sonno

Hai bisogno di dedicarti a questo pilastro della salute se:

– ti svegli stanco al mattino

– sei affetto da russamento o roncopatia

– il tuo sonno è interrotto da tanti risvegli

In assenza di un riposo notturno adeguato la nostra risposta allo stress sarà più facilmente attivata e col tempo queste modificazioni non solo aumenteranno il rischio di ipertensione arteriosa ma anche quello di numerose altre malattie croniche. Sicuramente possiamo fare qualcosa per migliorare questa situazione e proteggere quello che a tutti gli effetti è uno stato terepeutico in cui il cervello si disintossica, il sistema immunitario lavora senza sosta e i livelli di zucchero nel sangue si bilanciano.

I miei consigli

Scegli la posizione giusta: dormire sul fianco facilita il lavoro del sistema di detossificazione del cervello e mantiene la curva naturale della colonna vertebrale;

Cibo: il consumo serale di pasti abbondanti e alcol rende difficoltoso l’addormentamento;

Integratori: l’assunzione di sostanze come magnesio, biancospino e melatonina produce una concreta riduzione dei valori pressori notturni migliorando la qualità del sonno;

Rispetta l’orologio biologico: esponiti alla luce solare durante il giorno ed evita la luce blu dei dispositivi elettronici di sera;

Riduci lo stress: pratica alcune tecniche di respirazione e meditazione per ridurre l’ipertono del sistema nervoso.

Hai mai pensato al riposo pomeridiano?

Quando praticato costantemente può ridurre il rischio di infarto miocardico del 20%. Uno studio presentato all’American College of Cardiology paragona i benefici di un breve sonnellino (massimo 30 minuti) a quelli ottenibili con altre modificazioni dello stile di vita.

Adesso non ci sono più scuse per concentrare l’attenzione sul miglioramento del riposo notturno: dormire bene allunga la vita.

PS per approfondire leggi l’articolo:

Come migliorare la pressione arteriosa guardando la TV